La salute delle donne

La salute, la malattia, il dolore, il sollievo non sono soltanto esperienze organiche, hanno una natura e un impatto sociali, per questo possiamo dire che il problema della diseguaglianza non riguarda soltanto la possibilità di accedere a servizi di assistenza e di cura, ma più profondamente va a incidere sulla diagnosi, la terapia, la produzione stessa dei farmaci. Questo riguarda non solo le minoranze etniche o i gruppi etnici da poco tempo presenti in un dato territorio, ma metà della popolazione mondiale: le donne.

Le religioni monoteiste, coi miti delle origini, hanno creato una giustificazione trascendente della sofferenza femminile (cfr. Genesi 3,16: “Io moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore partorirai figli”) arrivando a considerare il dolore una condizione ineludibile della natura della donna e, di conseguenza, a sottovalutarne l’impatto.

L’idea, radicata in moltissime culture, che le donne sopportino meglio il dolore, si scontra con le acquisizioni scientifiche recenti che attestano il fatto che i vari tipi di dolore colpiscono i sessi in modi differenti e che fino ad ora ben poco si sia fatto per comprendere in profondità il dolore femminile.

Le donne hanno meno probabilità di farsi curare il dolore, di prendere sul serio i sintomi o di ricevere una diagnosi rispetto agli uomini. I corpi femminili e le condizioni che li colpiscono hanno meno probabilità di essere stati studiati in studi clinici e per questo è più difficile trovare trattamenti efficaci.

Il primo luogo nel quale si rileva un diverso trattamento della malattia e del dolore delle donne rispetto agli uomini è il Pronto Soccorso.

Esther Chen, un medico di medicina d’urgenza del General Hospital di San Francisco Zuckerburg, insieme a un team di colleghi ha svolto uno studio[1] di coorte prospettico su adulti (escludendo la condizione di donne gravide) che si presentavano in pronto soccorso lamentando un dolore addominale acuto non traumatico di durata inferiore a 72 ore. Lo studio è stato condotto dal 5 aprile 2004 al 4 gennaio 2005 coinvolgendo 981 pazienti e sono stati valuti prioritariamente la somministrazione di analgesia e il tempo per il trattamento analgesico.

È emerso che il 62% dei pazienti ha ricevuto un trattamento analgesico, ma pur avendo uomini e donne punteggi del dolore simili, le donne avevano meno probabilità di ricevere analgesia (60% vs. 67%) e soprattutto meno probabilità di ricevere oppiacei (45% vs. 56%). Queste differenze persistevano quando si escludevano diagnosi specifiche per genere (47% vs. 56%). Dopo aver controllato per età, razza, classe di triage e punteggio del dolore, le donne avevano ancora dal 13 al 25% in meno di probabilità rispetto agli uomini di ricevere analgesia da oppioidi. Inoltre le donne hanno atteso più a lungo per ricevere la loro analgesia (tempo mediano 65 minuti contro 49 minuti, una differenza di 16 minuti quindi).

 

Le donne e il dolore cronico

 

Le donne hanno maggiori probabilità di ricevere farmaci anti-ansia rispetto agli uomini perché, quando arrivano in ospedale lamentando un dolore, sono più spesso indirizzate come pazienti psichiatrici, mentre il loro dolore cronico non viene riconosciuto né tantomeno curato.

Il rapporto “Chronic Pain in Women: Neglect, Dismissal and Discrimination. Analysis and policy recommendations” della Chronic Pain Research Alliance[2] intende creare consapevolezza sulle condizioni di dolore cronico, che incidono in modo sproporzionato sulle donne e che comportano isolamento, licenziamento e discriminazione delle donne che soffrono di dolore cronico. Sindrome da affaticamento cronico, endometriosi, fibromialgia, cistite interstiziale, disturbi temporomandibolari e vulvodinia sono tra le condizioni più comuni di dolore cronico per le donne e l’investimento nella ricerca, nella cura e nella analgesia sono sottodimensionate. Si legge nel rapporto che: “A causa della mancanza di comprensione associata alle loro condizioni, fino a 50 milioni di donne americane con queste sei condizioni di dolore cronico spesso soffrono in silenzio perché viene loro detto che stanno immaginando o esagerando il loro dolore. C’è un’enorme necessità di educare il pubblico su queste condizioni di dolore cronico e sul loro impatto negativo sulle donne, sulle loro famiglie, sulla nostra società e sull’economia, nonché sulla necessità di aumentare il finanziamento federale della ricerca su queste condizioni”[3].

Esiste il pregiudizio radicato che le donne si lamentino più rapidamente dei problemi medici rispetto agli uomini, ma si tratta appunto di un pregiudizio e di una idea infondata: una meta-analisi di studi su due tipi comuni di dolore, mal di schiena e mal di testa, ha scoperto che uomini e donne avevano la stessa probabilità di andare dal medico[4]. L’evidenza che le donne sono più veloci ad andare dal medico è “sorprendentemente debole e incoerente”, hanno scritto i ricercatori. È possibile quindi che i medici considerino le segnalazioni di dolore delle donne come meno gravi.

Quel che si comincia a capire è che gli estrogeni alterano sia la percezione del dolore sia la risposta agli antidolorifici, il National Institute of health degli Stati Uniti ha introdotto solo nel 2015 una politica che richiede ai ricercatori scientifici in medicina di prendere in considerazione il sesso come variabile biologica. Le ricerche fin qui condotte, infatti, dimostrano che ci sono differenze nel modo in cui le donne provano dolore, in particolare ci sono diversi percorsi biologici per il dolore cronico, il chè significa che i farmaci antidolorifici che funzionano per un sesso potrebbero non essere efficaci per l’altra metà della popolazione e questo rende indispensabile che le donne e gli uomini siano trattati in modo diverso e che si sviluppi un approccio personalizzato alle cure del paziente. Il problema è che non esistono al momento antidolorifici progettati solo per uomini o donne, nessuno li ha cercati, lo sviluppo di farmaci inizia con studi su ratti e topi e fino a tre anni fa quasi tutta quella ricerca utilizzava solo animali maschi.

Il dolore cronico colpisce milioni di persone causando disabilità a lungo termine e le donne hanno maggiori probabilità di soffrire di dolore cronico, come i già citati endometriosi, fibromialgia, artrite, ma anche l’emicrania.

L’emicrania colpisce una donna su cinque ed è la seconda causa al mondo per numero di anni di disabilità, eppure la ricerca in materia rimane gravemente sottofinanziata, comportando un costo economico enorme, in particolare in termini di giorni di lavoro persi. Data la prevalenza dell’emicrania tra le donne, questa apparente negligenza potrebbe essere il risultato di della tendenza dei medici tendono a sottovalutare il dolore nelle pazienti di sesso femminile. Sono interessanti anche le associazioni storiche di genere tra emicrania e malattie mentali. Secondo il padre della moderna medicina per il mal di testa, il neurologo americano Harold G Wolff, c’era una diversa eziologia nella emicrania maschile e femminile: secondo lui, gli uomini, che erano ambiziosi e di successo, avevano attacchi di emicrania solo quando erano stanchi, mentre le donne erano affette da questa patologia perché non in grado di accettare il ruolo femminile, in particolare quando si trattava di sesso[5]. Di fatto l’emicrania continua ad essere sottovalutata e la ricerca non finanziata, nonostante il suo enorme impatto sulla salute pubblica.

 

La sottovalutazione del dolore femminile

 

Nel settore medico c’è una lunga storia di sottovalutazione del dolore femminile, difficile da stabilire sia dovuto a distorsioni di genere, alla mancanza di ricerche mediche sulle donne o a differenze effettive tra il modo in cui i sessi interpretano il dolore.

La difficoltà nell’includere le differenze sessuali nella ricerca del sollievo dal dolore deriva in parte da convinzioni errate, ma radicate fino a pochi decenni fa, come quella che uomini e donne fossero assolutamente identici sotto tutti gli aspetti, tranne la loro biologia riproduttiva. Questa convinzione, con le sue conseguenze nella ricerca medica e farmacologica, ha comportato storicamente molti danni per le donne che non hanno visto riconosciuti i propri sintomi, anche in situazioni acute come l’infarto.

I ricercatori statunitensi del McGill University Health Centre, hanno analizzato le cartelle cliniche di 1.015 pazienti, tra i 18 e i 55 anni, ricoverati per sindrome coronarica acuta, osservando che sono soprattutto le donne ad avere un infarto silenzioso, ovvero senza dolore al petto e questo rischia di ritardare l’accesso al pronto soccorso e alla diagnosi.

Le donne si trovano, molto più degli uomini, a sperimentare la frustrazione del non essere prese sul serio a sufficienza da essere curate, ma il pericolo maggiore è che i medici, in presenza di sintomi di difficile lettura, si accontentino di considerarli di natura psicosomatica – o, peggio, inventati allo scopo di vedersi prescrivere degli antidolorifici – e che quindi smettano di cercare altre spiegazioni. Considerando l’esperienza delle pazienti con malattie rare, vediamo che ci vogliono in media più di sette anni, prima di essere diagnosticate correttamente. Nel frattempo, queste donne consultano in media quattro medici di base e quattro specialisti e ricevono da due a tre diagnosi errate.

 

In Italia dal 2013 esiste una cattedra in Medicina di genere presso l’Università di Padova, ma a livello di consapevolezza sociale c’è ancora molto da fare. Anche i mezzi d’informazione non sono particolarmente ingaggiati nella segnalazione di questa peculiare forma di discriminazione sessuale, come invece è avvenuto in altri paesi, come la Gran Bretagna, dove l’anno scorso la Bbc ha pubblicato una serie di 18 articoli intitolata The Health Gap, che prendono in considerazione il problema del divario di genere nella salute, da diversi punti di vista.

Nel maggio del 2018 il Ministero della Salute ha pubblicato il “Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di Genere” ed è stato poi corretto e nuovamente divulgato nel maggio 2019, ma non ha ricevuto l’attenzione mediatica che meritava. Nel piano si afferma, tra le altre cose che: “le donne si ammalano di più, consumano più farmaci e sono più soggette a reazioni avverse, e sono “svantaggiate” socialmente rispetto agli uomini (violenze fisiche e psicologiche, maggiore disoccupazione, difficoltà economiche). Inoltre, le donne, per le stesse patologie, possono presentare, rispetto agli uomini, segni e sintomi diversi (infarto del miocardio) o diverse localizzazioni (neoplasie del colon, melanoma). Le donne possiedono un sistema immunitario in grado di attivare risposte immunitarie più efficaci rispetto agli uomini, e sono quindi più resistenti alle infezioni, ma nello stesso tempo mostrano una maggiore suscettibilità alle malattie autoimmuni… Alcune patologie considerate classicamente femminili, inoltre, molto spesso non sono riconosciute nel maschio e quindi sono sottostimate. Esempi sono l’osteoporosi, che colpisce prevalentemente le donne, ma è una minaccia anche per gli uomini, e la depressione, che sembra essere meno frequente negli uomini probabilmente perchè le statistiche non tengono conto del fatto che gli uomini tendono a ritardare il ricorso al medico e alle prestazioni sanitarie, inclusa l’assistenza psichiatrica…

Nei paesi occidentali, nonostante le donne vivano più a lungo, degli uomini l’aspettativa di “vita sana” è equivalente tra i due sessi; infatti, nelle donne, gli anni di vantaggio sono spesso gravati da disabilità, principalmente correlata alle conseguenze determinate da malattie croniche e scarsa qualità della vita, con un impatto anche sulla spesa sanitaria. Pertanto è fortemente auspicabile la messa a punto di strategie per supportare l’invecchiamento sano della popolazione tenendo conto del genere… La Medicina di Genere è, quindi, una necessaria e doverosa dimensione interdisciplinare della medicina che vuole studiare l’influenza del sesso e del genere su fisiologia, fisiopatologia e patologia umana, vale a dire su come si instaurano le patologie, quali sono i sintomi, come si fa prevenzione, diagnosi e terapia negli uomini e nelle donne”[6].

 

Le donne e la demenza senile

 

Ci sono patologie che toccano particolarmente da vicino le donne e la cui eziologia è fortemente connessa alla condizione sociale che vivono. Prendiamo ad esempio l’Alzheimer e la demenza senile. Secondo le statistiche in Australia, quasi i due terzi di tutti i decessi correlati alla demenza sono di donne e negli Stati Uniti, due terzi di coloro che vivono con la malattia sono donne. Le donne statunitensi con più di 60 anni hanno il doppio delle probabilità di sviluppare la malattia di Alzheimer rispetto al cancro al seno. E in Inghilterra e Galles, oltre che in Australia, la demenza è diventata la principale causa di morte per le donne, superando anche le malattie cardiache.

Anche in Italia, dove ci sono circa 1,2 mln di malati di demenza senile, le donne sono più degli uomini. Parte del divario di genere dipende dal fattore di maggior rischio connesso alla demenza che è l’età e dato che le donne in media vivono più a lungo degli uomini, sono più a rischio di demenza, ma non si tratta solo di questo. Le donne sono più soggette anche ai fattori di rischio cardiovascolari quali diabete di tipo 2 e ipertensione, connessi all’Alzheimer. Inoltre le donne sono più soggette alla depressione e si è dimostrato il legame tra questa e l’Alzheimer, ma ci sono anche fattori squisitamente sociali ad inserirsi: alcune ricerche hanno dimostrato che essere un caregiver è, di per sé, un fattore di rischio per la malattia di Alzheimer[7] e i caregivers non pagati che si prendono cura di qualcuno con demenza, sono quasi tutti donne. I caregivers, familiari o professionali, sono, quindi, sottoposti a stress e tensioni che, in molti casi, sfociano in stati patologici, quali ansia e depressione e, a lungo termine, demenza.

 

 

Riflessioni conclusive

 

È evidente che esiste un concorso di fattori a perpetuare una diseguaglianza di genere nella medicina, fattori che si sta cercando di eradicare a partire dalla ricerca scientifica, per arrivare alle politiche sanitarie e ad interventi diretti sul personale sanitario, ma è molto importante che – fin dalla prima formazione – gli operatori sanitari siano resi consapevoli di questo gap.

Il dolore delle donne, per secoli sottovalutato e incompreso, deve essere finalmente preso in carico dalla medicina ufficiale e questo può avvenire soltanto attraverso la fase delicatissima e cruciale dell’ascolto attivo e dell’attribuzione di valore alle parole delle pazienti. Nessuna ricerca farmacologica potrà mai essere efficace, senza questo passaggio relazionale, che impegna tanto i medici, quanto tutti gli altri operatori sanitari impegnati nella cura.

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Cipolla C. (2014), Sociologia e salute di genere, FrancoAngeli, Milano.

Hunt K, Adamson J., Hewitt C., Nazareth I. Do women consult more than men? A review of gender and consultation for back pain and headache, in Journal of Health Services Research & Policy 16(2):108-17 · April 2011

Ministero della Salute, “Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere” (in attuazione dell’articolo 3,comma 1, Legge 3/2018), versione del 6 maggio 2019

Rossi, M., & Ruspini, E. (2013). Sguardi sociologici sulla medicina di genere. Una ricerca mediata dal web. In A. Maturo, & C. Cipolla (a cura di), Sociologia della salute e web society (pp. 17-37). FrancoAngeli, Milano.

[1] Gender Disparity in Analgesic Treatment of Emergency Department Patients with Acute Abdominal Pain, Esther H. Chen, MD, Frances S. Shofer, PhD, Anthony J. Dean, MD, Judd E. Hollander, MD, William G. Baxt, MD, Jennifer L. Robey, RN, Keara L. Sease, MaEd, Angela M. Mills, MD, ACADEMIC EMERGENCY MEDICINE 2008; 15:414–418 a 2008

[2] http://www.livingwithendometriosis.org/wp-content/uploads/2010/08/cecpw_policy-recommendations.pdf

[3] ibidem

[4] Do women consult more than men? A review of gender and consultation for back pain and headache, Kate Hunt, Joy Adamson, Catherine Hewitt and  Irwin Nazareth in Journal of Health Services Research & Policy 16(2):108-17 · April 2011.

[5] Why don’t we know more about migraines?  Lauren Sharkey, BBC, 2 luglio 2018. https://www.bbc.com/future/article/20180702-the-sexist-history-of-migraine-may-affect-research-today

[6] Ministero della Salute, “Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere” (in attuazione dell’articolo 3,comma 1, Legge 3/2018), versione del 6 maggio 2019

 

[7] Di questa correlazione si è occupata in particolare Annemarie Schumacher, psicologa della salute, si veda la sua relazione: Women’s experience of the caregiver role. An overview of current findings al Alzheimer’s Disease International’s 33rd Conference, Chicago

 

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