Articolo apparso su Agorà IRC n.9, Settembre 2021
È innegabile che negli ultimi anni le donne siano diventate uno dei principali punti di attenzione dentro e attorno alla Chiesa cattolica ed è naturale chiedersene la ragione. A mio modo di vedere, questo accade per tre ordini di motivi che, se considerati insieme, rappresentano un’occasione, un kairos difficile da ignorare.
La prima ragione è – diciamo – demografica. Le donne, si dice, se ne stanno andando dalla Chiesa, è sempre più difficile trovare catechiste, le ragazze smettono di frequentare dopo la Cresima nella stessa misura dei loro coetanei maschi e questo non può che allarmare; non solo pensando al presente, ma anche al ruolo cruciale che le madri rivestono nella trasmissione della fede alle future generazioni. Certo, le donne sono ancora lo zoccolo duro delle nostre comunità e associazioni, sono tra le maggiori fruitrici laiche degli studi teologici e inoltre i dati sociologici sul loro allontanamento sono pochi e non univoci, perchè la ricerca sociologica in materia di religiosità è sempre stata piuttosto insensibile alla questione del genere. Eppure è innegabile che qualcosa sia cambiato negli ultimi decenni nel rapporto tra donne e chiesa: si è rotta l’alleanza silenziosa a causa dei mutamenti sociali, del nuovo ruolo delle donne nel lavoro e nella società, ma anche della delusione femminile nei confronti di una Chiesa che con l’Humanae vitae ha marcato una distanza rispetto alla nuova consapevolezza delle donne su sessualità e generatività. Abbiamo ovviamente anche altre cause tra le quali cito l’enorme strappo avvenuto con la scoperta dell’insabbiamento sistematico degli abusi sui minori avvenuto pressoché in tutti i paesi del mondo. Le donne-madri non possono accantonare un peso del genere.
La seconda ragione per la quale oggi si parla tanto delle donne è che Papa Francesco ha fatto alcune significative nomine in uffici e dicasteri fino ad oggi appannaggio degli uomini (solo per citarne alcune: suor Smerilli vicepresidente del Dicastero per lo sviluppo umano integrale, Barbara Jatta direttrice dei Musei Vaticani, Suor Becquart vice segretaria del sino dei Vescovi). Personalmente considero il rumore fatto attorno a queste nomine la miglior prova del fatto che sono insufficienti e in ritardo, ma mi rendo conto che per molti l’inserimento di pochissimi selezionati (senza criteri noti) nomi femminili sia da considerare già una grande conquista. Io non la ritengo tale e grande conquista non mi pare neppure l’ammissione delle donne ai ministeri del lettorato e dell’accolitato, che rappresenta semplicemente la certificazione di una realtà già esistente in molti contesti (non tutti, questo è vero) benché sia sicuramente un passo più significativo di riconoscimento della ministerialità delle donne rispetto a qualche nomina singola.
La terza ragione, quella che personalmente considero predominante, è che sempre più donne cattoliche in tutto il mondo hanno preso parola e si stanno organizzando in reti nazionali e sovranazionali [1] per chiedere pari diritti anche nella Chiesa, quei diritti faticosamente conquistati almeno nel mondo occidentale (ma sempre a rischio come l’esperienza Afghana ci insegna) e che invece non sono ancora riconosciuti all’interno della comunità cristiana. Infatti, benché la comune creaturalità sia il fondamento dell’uguaglianza e Gesù ci abbia resi tutti figlie e figli, quando all’uguaglianza della dignità non corrispondono pari diritti, purtroppo anche questa resta lettera morta. Ed è questo che accade nella Chiesa.
Cosa intendo quando parlo di “pari diritti”, un linguaggio che – lo so bene – sembra poco applicabile al contesto ecclesiale? Mi riferisco alle possibilità concretamente aperte alle donne di partecipare pienamente alla missione della Chiesa, quindi mi colloco in una prospettiva di vocazione, autorità e governo.
Innanzitutto le opportunità vocazionali concrete date a donne e uomini sono diverse e non possono essere tutte ricondotte alle differenze naturali. Non prenderò per ora in considerazione la questione dell’ordinazione, che di per sé merita un approfondimento a parte, mi limito a parlare della vita religiosa maschile e di quella femminile: laddove le donne hanno provato a costruire comunità più autonome, superando lo schema della religiosa che serve senza essere vista (ricordiamo qui l’importante reportage sul lavoro gratuito delle suore apparso sul numero di marzo 2018 di «Donne Chiesa Mondo»), le religiose sono state messe sotto tutela. Esempio macroscopico è ciò che è avvenuto negli Stati Uniti, con il commissariamento del Leadership Conference of Women Religious (LCWR), l’organo che rappresenta l’80% delle 57000 suore americane, da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, finalizzato a riportare le audaci e autonome religiose americane nell’alveo del controllo e della disciplina, arrivando ad obbligarle a sottostare a una forma di censura preventiva nei loro scritti. E la ragione più pressante era il loro appoggio alla riforma sanitaria di Obama.
Ma è anche negli scritti ufficiali che questa subordinazione appare: penso ai tanti, troppi documenti vaticani che si sono premurati di entrare nel merito della vita delle suore in un modo mai visto per i religiosi maschi (da ultimo il documento Cor Orans del 2018), sottoponendole inoltre a un controllo maschile in particolare sulle questioni economiche e immobiliari.
Contemporaneamente non si può tacere una certa impostazione tradizionalistica dei ruoli maschili e femminili, nel modo in cui viene presentato il matrimonio cristiano ai giovani in discernimento vocazionale, orientati a questo stato di vita. Arrivando ad aberrazioni come quella di continuare a presentare concetti come il debito coniugale che le spose avrebbero nei confronti dei loro mariti, tutt’ora predicato in alcuni corsi prematrimoniali, come da me verificato nel dialogo con giovani spose residenti in diverse regioni italiane.
Anche per chi resta single, per scelta o meno, il trattamento è differente tra uomini e donne. L’accentuazione della vocazione alla maternità delle donne a volte pesa come un macigno.
I single in generale sono dimenticati dalla pastorale, che salta inevitabilmente dall’attenzione ai giovani a quella alle giovani coppie, considerando la solitudine al più una fase, ma è sulle donne single a pesare di più lo stigma, come scriveva una donna al sito dell’associazione Donne per la Chiesa che presiedo: «Per me, che non sono sposata, non ho figli, non sono consacrata, questi “non” hanno avuto più peso, nella realtà ecclesiale conosciuta, di tutto ciò che in positivo invece ero e sono».
Ogni volta che si parla di diseguaglianza di opportunità si parla di talenti sprecati, carismi perduti e questo va a discapito della Chiesa tutta.
C’è poi il grande tema dell’autorità e del governo della Chiesa, un’istituzione che si regge su una rigida gerarchia interamente composta da maschi celibi. Lasciando da parte i rischi connessi all’uniformità di chi esercita il potere (rischi diventati certezza dopo le continue rivelazioni di abusi sui minori e sulle donne), il punto che mi interessa qui toccare è che sono pochissime, e per lo più informali, le opportunità per le donne di esercitare la propria leadership nella Chiesa e questo è un peccato, nel senso di perdita, di spreco, dal momento che le donne sanno esprimere autorità e lo sanno fare spesso anche in modi inediti. Come ha detto il Cardinal Marx durante il Sinodo sui giovani “Se la Chiesa vuole promuovere la dignità della donna allora…Dobbiamo affrontare le richieste dei giovani e, per amore di credibilità, dobbiamo coinvolgere le donne nei compiti di leadership a tutti i libelli della Chiesa, dalla parrocchia alla diocesi, alla conferenza episcopale e anche al Vaticano stesso”.
Sono convinta che stiamo vivendo davvero un tempo opportuno, nel quale la Chiesa ha l’occasione di riparare a un’ingiustizia e insieme di immettere nuova linfa nelle sue millenarie pieghe istituzionali. Questo difficilmente frenerebbe il percorso di allontanamento dei fedeli dalla pratica religiosa, che la pandemia ha ulteriormente accelerato, ma sarebbe un primo passo per fare giustizia a tutte le donne credenti che nei secoli hanno servito la Chiesa nel silenzio e, troppo spesso, nell’umiliazione.
[1] Uno tra tutti: il Catholic women’s council